di Carlotta Cossutta & Chiara Bastianoni: sorelle
[Articolo e illustrazione sono stati pubblicati sul numero 1 di
Lǝ Cerbottanǝ. Sassolini contro il patriarcato]

Come scrivere di sorellanza se non parlandone con altre, rimbalzandosi le domande più che le risposte e costruendo uno spazio aperto? Questo è ciò che abbiamo provato a fare assieme, partendo da quello che è il nostro legame di sorellanza: una relazione situata, nata non tanto da una condizione simile, quanto da un simile desiderio.
Sorellanza – è possibile sentirsi sorelle senza conoscersi? E sorelle sono tutte le donne?
Carlotta:
Sorellanza è un concetto politico, che fa eco alla fratellanza rivoluzionaria, ma ne mostra la parzialità. Per questo sorellanza non è universale, ma è la scelta di una prospettiva che riconosce che le donne – quelle che si sentono tali e quelle percepite come tali – sono il soggetto di un’oppressione strutturale. Sorelle, così, siamo tutte, ma non perché ci sentiamo tutte vicine a priori, piuttosto perché costruiamo un soggetto collettivo nelle nostre lotte (dove finisce poi che ci conosciamo). Sorellanza è sfuggire la competizione e scegliere consapevolmente di costruire un noi, sempre situato e mutevole, ma riconoscibile.
Chiara:
Sorellanza costituisce per me uno spazio politico di relazione; una processualità condivisa che può esprimersi attraverso modalità molteplici ma che pone al centro della riflessione e della pratica politica l’urgenza di ribaltare e sovvertire le diverse forme di oppressione e violenza su cui si fonda il sistema di potere patriarcale. La sorellanza non è dunque definita da una data condizione biologica – quella di essere nate con la vagina – ma rappresenta piuttosto una scelta che si rinnova, un posizionamento politico che non può darsi se non in presenza dell+ altr+. La sorellanza può perciò esprimersi nell’immediatezza di un momento ma anche attraverso un dialogo continuo in cui partire da sé per superare l’individualità e co-spirare assieme.
Sorella è un termine pieno di ambiguità, che si lega, nell’immaginario, alle relazione e ai conflitti familiari.
Come risignificarlo politicamente?
Carlotta:
Le ambiguità del termine sorellanza sono molto evidenti, ma se riusciamo a non nasconderle (e nascondercele) possiamo trovarci molta forza. Possiamo rifiutare gli ordini del padre e forse anche quelli della madre, e guardarci intorno per riconoscerci figlie di una stessa rabbia, pur se nutrita da storie diverse. Infatti sorellanza non vuole dire uguaglianza, nel senso di uniformità, ma apre alla possibilità di immaginare differenze che però non precludono la costruzione di legami orizzontali. In fondo, non è la comune oppressione a farci sorelle, ma la nostra volontà di sovvertirla attraverso la solidarietà.
Chiara:
Riappropriarsi del termine sorella per farne assieme ad altr_ un uso/strumento politico ci offre l’opportunità di riconoscerci come sorelle ma sollevandoci dal vincolo rappresentato dall’essere figlie. All’interno di questa cornice è perciò possibile praticare quell’orizzontalità relazionale che non è però scevra da elementi di conflittualità. Credo sia infatti importante sgomberare il campo dall’idea che lo spazio politico collettivo definito dalla pratica della sorellanza sia uno spazio liscio, pacificato, privo di possibili ruvidità o rotture. Assumere questo portato, e la complessità che comporta, diventa allora presupposto fondamentale per riconoscere e abbattere quell’impalcatura di ruoli, norme e significati su cui si fonda il sistema patriarcale; e per accendere la miccia di un’attivazione e collettiva che si ponga come orizzonte quello della libertà e della liberazione di e per tutt_.
Sorella io ti credo: perché? E credere alle sorelle vuol dire inevitabilmente condannare qualcuno?
Carlotta:
“Sorella io ti credo” significa aprire uno spazio di possibilità contro un sistema che silenzia la voce delle donne* e che si nutre producendo la competizione femminile per brillare davanti allo sguardo maschile. Dire “ti credo” permette di rompere con la spirale del silenzio attraverso il riconoscimento di una violenza strutturale che anche io ho vissuto, se pure magari in forme diverse. Credere, qui, non è un gesto fideistico, ma radicato nelle esperienze e nei corpi. Aprire questo spazio è vitale e ha a che fare con l’accogliere più che con il condannare, perché senza questa apertura si riproduce solo un silenzio complice. E senza questa apertura non si potrebbe nemmeno capire come reagire collettivamente alle violenze, agli abusi e ai conflitti, che rimarrebbero invisibili.
Chiara:
Con quali modalità praticare il “sorella io ti credo” è questione aperta che non dispone di un manuale di istruzioni; si tratta piuttosto di una processualità che necessita di una riflessione continua e condivisa, capace di coglierne i significati immediatamente politici. Dicendo “sorella io ti credo” apriamo un campo politico che offre, a chi lo attraversa, la possibilità di contrapporre alla brutalità del silenzio la libertà della condivisione. Sappiamo infatti quanto invisibilizzazione e silenziamento siano parte integrante delle molteplici forme con cui si articola la violenza strutturale; è la complicità del silenzio che genera vergogna e isolamento. Abitare questo spazio permette allora di riconoscere e accogliere la pervasività di questi aspetti senza assumerli in termini dogmatici e di liberarci dal paradigma della condanna.