di Marina Cuollo
[Questo articolo è stato pubblicato sul numero 1 di
Lǝ Cerbottanǝ. Sassolini contro il patriarcato]
Sono cresciuta in una famiglia con molte donne. Oltre mia madre e le mie nonne, mi gravitavano intorno una decina di zie e diverse cugine più o meno grandi di me. Con una famiglia numerosa e una vita scolastica piuttosto attiva in teoria avrei dovuto capire presto le dinamiche che intercorrono all’interno del mondo femminile, e invece il significato di quella che oggi chiamiamo sorellanza io l’ho capito tardi.
Durante l’adolescenza ho cercato a lungo l’incastro giusto con le mie coetanee, ma per quanto mi sforzassi di inserirmi tra le chiacchiere di gruppo ho sempre sentito una profonda distanza tra me e loro. E no, non c’entrava il fatto che avessi un corpo molto diverso, era qualcosa di più articolato, ma all’epoca non sapevo dare un nome a quella sensazione. L’accudimento che percepivo nei miei riguardi, la scelta cadenzata delle parole e gli sguardi di complicità che si scambiavano nei discorsi sui ragazzi, mi hanno sempre fatto sentire, seppur fisicamente presente, una specie di spettatrice.
Per parecchio tempo all’interno dell’universo femminile mi sono sentita priva di una collocazione, finché l’incontro con il femminismo mi ha aperto gli occhi e ho capito che il modo in cui sono stata cresciuta era diverso da quello delle ragazze che conoscevo. Nessuna raccomandazione arrivava per me sui pericoli del mondo esterno, il mio guardaroba non veniva scandagliato da mia madre alla ricerca di abiti succinti che potessero attirare lo sguardo maschile e le mie cugine non hanno mai condiviso con me le strategie da adottare in caso di catcalling. Eppure questo non significa che io fossi meno a rischio delle altre, semplicemente nel mio caso le insidie del patriarcato si manifestano in modo diverso perché non sono solo una donna. Sono una donna disabile.
Capire quanto la mia identità (così come quella di chiunque) sia una sovrapposizione di fattori mi ha permesso di conoscere il profondo significato di sorellanza, che va al di là dell’amicizia tra donne o l’aver condiviso esperienze simili, e che oggi rappresenta per me uno spazio sicuro.
Si tratta di un’unione che nasce quando ci si rende conto che l’oppressione può avere forme diverse pur avendo una matrice comune. Questo tipo di legame però è possibile se ci si mette in ascolto. Una sorellanza che funziona si basa non solo sul sostegno reciproco, ma anche sulla comprensione delle differenze e il riconoscimento del proprio privilegio. Questo significa avere ben chiaro che per quanto il personale sia politico, nessun personale può mai essere universale.
Ed è qui che la sorellanza, quando non lascia indietro nessunə, diventa davvero rete di salvataggio.