CS: La narrazione violenta e tossica di una notizia

7 Gennaio 2024

Roma, 8 gennaio 2024

La notizia relativa all’ennesimo caso di violenza maschile su una donna, avvenuta la notte di Natale, ci spinge a una breve riflessione al fine di segnalare che, ancora volta, un abuso è stato narrato pubblicamente in forme che producono la feroce spersonalizzazione e disumanizzazione della persona offesa. In alcuni articoli, basati sull’ordinanza di custodia cautelare in carcere, in spregio di qualsiasi linea guida e legge internazionale per il trattamento adeguato della vittima, vengono riportate – senza il suo consenso – le parole della donna, pronunciate durante le atroci ore della violenza subita.

Vogliamo essere chiare: si tratta di una narrazione che rivela una totale assenza di consapevolezza e di preoccupazione per il vissuto della donna. Non è questo il diritto di cronaca, non è questo il contributo che la stampa può dare al contrasto della violenza maschile sulle donne. Al contrario, siamo una volta ancora in presenza di quella narrazione tossica che da anni ostacola la comprensione e quindi lo sradicamento del fenomeno.

La storia di un abuso, nelle cronache di questi giorni, diviene gossip da riportare con dovizia di particolari voyeuristici e perversi, titoli sensazionalistici e dettagli non pertinenti che sollecitano giudizi negativi sul comportamento e sulla moralità della persona offesa, insinuando che “se la sia cercata”. Ad esempio, narrare gli atteggiamenti controllanti e le precedenti aggressioni che avevano allarmato la donna inducendola ad allontanarsi dall’accusato sotto titoli come “le aveva promesso un panettone, poi lo stupro” rischia di dipingerla come una sprovveduta, corresponsabile dell’abuso subito perché facilmente raggirabile con stratagemmi infantili nonostante gli eloquenti precedenti.

Questa narrazione semplifica grossolanamente le dinamiche della violenza dentro una relazione intima, che includono l’atroce meccanismo di alternanza di momenti di ferocia e momenti di pace, e durante questi ultimi è comune per le donne accettare di incontrare il proprio abusante per un chiarimento o nutrendo la speranza di un riavvicinamento. Questo non significa essere “causa del proprio male”: il “male” risiede unicamente nella lucida violenza e nella sopraffazione agita dal comportamento maschile, che non si può pensare di annullare chiedendo alle donne di rimanere in casa onde evitare di divenire “vittime” di violenza, e che al contrario deve essere oggetto di interventi a tutto campo diretti agli uomini.

Assistiamo ancora una volta al riprodursi di quella cultura di diffidenza, se non di aperta ostilità, verso le donne che nutre il fenomeno della rivittimizzazione. Nelle cronache di questa vicenda essa si esprime ora in modo velatamente denigratorio, ad esempio descrivendo la donna come “rampolla” di famiglia nota “aspirante influencer sui social” (e dunque in cerca di visibilità a tutti i costi, verrebbe da pensare?) e ora in modo esplicito, come nella scelta di riportare il dettaglio, del tutto inconferente, di un suo precedente aborto.

Da sempre, attribuire alle vittime di stupro e femminicidio una presunta condotta sessuale o riproduttiva “non conforme” è un’arma per metterne in dubbio la moralità e quindi l’attendibilità, mitigando così le responsabilità degli autori. Duole osservare come certa stampa faciliti il lavoro della difesa ancor prima che il processo abbia avuto inizio, dando vita ad una narrazione schiacciata sul particolare sensazionalistico, che lascia in ombra il portato della violenza subita e il sistema che la alimenta e normalizza, dipingendola come dato immutabile dell’ordine sociale e derubricandone le espressioni ad episodi individuali prodotti da condotte incaute delle vittime.

Come Centri Antiviolenza, operatrici e avvocate che assistono da anni le donne che subiscono violenza, esprimiamo la massima solidarietà e vicinanza alla donna offesa, la quale si trova a dover subire ancora altre forme di violenza, quella dei media, della vittimizzazione secondaria, della narrazione del suo vissuto e del giudizio conseguente. Denunciamo inoltre che il reiterarsi di queste modalità narrative espongono la persona a ulteriori rischi per la sua incolumità psicofisica, rendendola possibile bersaglio di incel e hater. Ricordiamo infatti che secondo uno studio UE, l’Italia è tra i quattro paesi più misogini in Europa.

Occorre un codice etico e una formazione specifica per giornalisti e giornaliste, perché ogni figura professionale e non ha un ruolo che, in mancanza di consapevolezza sul fenomeno della violenza di genere, crea ulteriore violenza. La comunicazione mainstream non si pone realmente il problema di contrastare il fenomeno. Altrimenti affronterebbe seriamente il tema del come “narrare la violenza sulle donne”, quali effetti e contraddizioni produce una narrazione sbagliata che contribuisce in forma dannosa al perpetrarsi del fenomeno.

Ci auguriamo che non sia questa l’occasione per riprodurre dinamiche note secondo le quali, nonostante la fase giudiziaria ancora preliminare, sotto accusa finisce chi dovrebbe essere invece tutelata.

Contatti: ufficio.stampa@luchaysiesta.org

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